Arrivato ad Atene dopo burrascose peripezie apostoliche
nell’Ellade, l’apostolo Paolo intravede in un tempio della città, un’ara
sacrificale con questa dedica “Ἀγνώστῳ θεῷ”, “Al dio ignoto”. Il fatto ci viene riferito dagli Atti degli
Apostoli nella narrazione del ministero di Paolo di Tarso in Grecia. La
cultualità pagana dava personalità divina a tantissime espressioni della natura
e dell’indole umana, affidando ad ognuna nome, genealogia, influenza sugli
umani. Nel timore di dimenticare di onorare qualche nume del pantheon olimpico,
avevano pensato bene di erigere un altare anche a questo dio sconosciuto. Paolo approfitta della propensione degli
ateniesi per la dialettica e per le dispute sui più svariati argomenti,
intervenendo nell’Areopago della città, per dare al dio sconosciuto il volto
del Dio unico di Israele che si era reso visibile in Cristo. Gli Atti del Apostoli ci hanno trasmesso una
splendida descrizione di questo episodio e del discorso di Paolo al capitolo
17, a partire dal versetto 22. Sembra una pagina di oggi. Lo scetticismo
supponente degli ateniesi che si credevano portatori della cultura in una
Europa di barbari non è dissimile dall’alterigia dell’uomo moderno convinto di
possedere le chiavi del sapere universale con cui risolvere adesso o in futuro
tutti i problemi. La scienza creduta
falsamente onnipotente è l’idolo tra i più venerati oggi, insieme al denaro, al
potere, al piacere, al successo. Questo
è il pantheon di oggi, ma tra i templi moderni in cui questi idoli ricevono il
loro specifico culto manca l’ara al “dio ignoto”, perché l’uomo di oggi, almeno
apparentemente e nella generalità, non sente la necessità di cercare qualcosa
fuori di se, essendo convinto di essere la misura del bene e del male e di
poter appagare le proprie aspirazioni con quanto potrà ottenere dai propri
idoli. L’uomo pagano, a modo suo aveva
una qualche religiosità, intuiva una realtà che lo trascendeva, anche se in
modo confuso, Paolo stesso lo riconosce dichiarando: “vedo che in tutto siete
molto timorati degli dèi”. Gran parte
degli uomini di oggi, almeno nelle nostre società occidentali e nella vita
pubblica, non hanno più la nozione del divino con cui confrontarsi, con cui dare un senso al proprio esistere, al
dolore, alla vita e alla morte. Sono agnostici (ἀ "senza" e γνῶσις “conoscenza”)
in rapporto a Dio e alla relazione tra l’assoluto e l’umano. La nostra società
non nega Dio e né lo combatte, ma lo ignora, non lo conosce e non ha interesse
a conoscerlo. Forse non è del tutto così.
Tra la confusione provocata da una società che tende a stordire l’uomo,
a non farlo riflettere, tra il bombardamento di informazioni, concezioni
relativiste dell’esistenza, pensieri indotti dal “politically correct”, quasi
certamente all’interno di ogni persona è possibile scorgere una piccola ara al
“Dio Ignoto”, questa volta con le lettere maiuscole. Anche il più distratto tra gli uomini non può
non chiedersi che senso abbia la sua vita, che ne sarà di lui dopo la morte;
scomparirà come gli dice il sentire contemporaneo? Il
mondo che gli sta intorno non è in grado di dargli queste risposte. Il
mondo con i suoi nuovi idoli è agnostico, cioè è “senza conoscenza” di queste
realtà che sgorgano dal più profondo dell’essere umano. Ma il Dio Ignoto ha costruito un altare
all’interno di ogni uomo, una traccia di se, quasi una mappa per farsi
trovare. Nella mappatura del genoma
umano è stato individuato un gene che orienta la mente verso l’infinito, verso
realtà che trascendono la propria fisicità. Ognuno di noi infatti, anche senza
accorgersene tende all’infinito: cerca un amore infinito, una giovinezza che
non finisca mai, una bellezza assoluta, una giustizia sicura, una vita che non
termini. Ecco l’altare al Dio Ignoto
costruito dallo stesso Creatore, perché tutte queste cose sono Lui, affinché
l’uomo possa raggiungerlo e dargli il culto d’amore che darà il vero senso alla
propria esistenza. Paolo ha detto agli
ateniesi che quanto il Creatore ha messo nel cuore dell’uomo è “perché
cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non
sia lontano da ciascuno di noi”. Concludendo, che “In Lui viviamo, ci muoviamo
ed esistiamo, ….poiché noi siamo stirpe di Lui”.
Enrico Pierosara
Nessun commento:
Posta un commento